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27 Febbraio 2020

Jeremy Corbyn: le ragioni della sconfitta.

di Dino Amenduni

IL CHI, IL COSA E IL COME: SPUNTI PER LA COMUNICAZIONE POLITICA DEL 2020.

Non è semplice – e talvolta è persino controproducente – astrarre considerazioni sulle elezioni politiche in nazioni diverse dall’Italia (a partire dal sistema elettorale) per provare ad applicarle alle questioni di politica interna, ci sono però due dati sulla recente tornata nel Regno Unito che potrebbero fungere da monito per i leader politici del nostro paese e in entrambi i casi riguardano le ragioni della sconfitta di Jeremy Corbyn.

L’istituto YouGov aveva calcolato, nel 2017, il gradimento delle singole misure che poi hanno fatto parte del cosiddetto ‘libretto rosso’ del candidato Primo Ministro del Partito Laburista.

In due anni possono cambiare molte cose, in Italia oramai lo sappiamo bene quando pensiamo alla politica, ma le percentuali del 2017 lasciavano poco spazio a equivoci: due cittadini su tre ritenevano che poste, ferrovie e società energetiche dovessero essere in mano pubblica, e la percentuale saliva all’84% quando si parlava di sanità.

Il nucleo fondante politico e culturale della proposta laburista era assai gradito agli elettori, eppure il partito ha conosciuto la sconfitta più grave in un’elezione politica dal 1935 a oggi. Cos’è successo, dunque? A questo punto entra in gioco il secondo dato degno di nota: il gradimento personale del leader.

I britannici volevano la nazionalizzazione dei servizi essenziali e non ritenevano, dunque, quel segmento del programma di Corbyn ‘estremista’.

La media di 88 rilevazioni condotte su Jeremy Corbyn dal luglio 2017, il momento in cui “Jezza” era acclamato da centinaia di migliaia di giovani al festival musicale di Glastonbury, fino a metà 2019, evidenziano una tendenza clamorosamente netta: a metà 2017 il gradimento personale del candidato laburista era al 45%, due anni dopo era sceso al 17% (con un tasso di disapprovazione altissimo, il 63%).

Volendo provare a fare una sintesi e allo stesso tempo un tentativo di generalizzazione di queste tendenze, si potrebbe affermare che il ‘chi’ è diventato assai più decisivo del ‘cosa’ nel determinare il comportamento di voto.

Le stesse parole d’ordine di Corbyn, pronunciate da qualcuno più credibile di lui, avrebbero potuto determinare un esito completamente diverso. La reputazione del leader di turno appare oggi la variabile indispensabile per poter risultare competitivi, ancora più del programma portato avanti. Evidentemente non è possibile separare in modo netto le due questioni: la reputazione si costruisce anche sulla base delle proprie scelte politiche, e ad esempio Corbyn è stato disastroso nella gestione del posizionamento del partito sulla Brexit, non comunicando una linea di condotta netta e scontentando così sia chi caldeggiava il Remain sia chi voleva la Brexit una volta per tutte.

Questi dati però suggerirebbero una linea di tendenza che può aiutare a decodificare gli esiti delle elezioni, anche in Italia, nel futuro prossimo: un leader credibile (o quantomeno più credibile dei suoi avversari) con un programma vago ha più possibilità di vincere di un leader screditato con un programma dettagliato.

Il ‘chi’ e il ‘cosa’, a loro volta, appaiono decisamente più importanti del ‘come’: i dati sulle inserzioni sponsorizzate su Facebook durante le elezioni, pubblicati dalla BBC, indicano come i laburisti e i liberal-democratici, i grandi sconfitti di questa tornata, abbiano speso più dei Conservatori, senza ricavarne un vantaggio significativo. Anche questo è un elemento di un certo rilievo in termini generali: leader con credibilità in calo e minore capacità di dettare l’agenda sui contenuti programmatici rendono le macchine della propaganda digitale assai meno rilevanti di quanto si ami credere.

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